Il Rapporto INVALSI 2025 ha riacceso un vivace dibattito tra docenti, dirigenti scolastici, pedagogisti ed esperti di didattica. A fronte di una mole imponente di dati raccolti – oltre 7 milioni di prove somministrate a più di 2,5 milioni di studenti – emergono con chiarezza alcune tendenze già note e consolidate, ma anche nuove e preoccupanti criticità. Tuttavia, accanto all’analisi degli esiti, si è fatta sempre più urgente una riflessione sul valore epistemologico e formativo delle prove INVALSI: cosa ci dicono davvero queste rilevazioni sullo stato della scuola italiana? E, soprattutto, cosa rischiano di nascondere?
Una fotografia nitida… ma piatta
I dati INVALSI 2025 offrono, come ogni anno, una rappresentazione dettagliata delle competenze di base in Italiano, Matematica e Inglese, e quest’anno anche sulle Competenze Digitali. Ma nonostante la crescente precisione statistica, la “fotografia” che ne deriva rischia di essere bidimensionale, incapace di cogliere la profondità e la complessità della realtà scolastica. Il rischio – secondo molti docenti intervenuti nel dibattito – è che si finisca per ridurre la scuola a una somma di risultati numerici, dimenticando che educare significa molto più che insegnare a risolvere esercizi o comprendere un testo scritto.
Divari territoriali e diseguaglianze strutturali
Una delle criticità più evidenti emerse dal Rapporto riguarda la persistenza del divario territoriale: gli studenti delle regioni del Sud e delle Isole continuano a conseguire risultati inferiori rispetto ai coetanei del Nord, con differenze che si mantengono stabili nel tempo. In alcune regioni, oltre il 40% degli studenti si colloca al di sotto della soglia minima di competenza. Questi dati, pur utili per mappare la situazione, non spiegano le cause profonde: povertà educativa, carenza di infrastrutture, instabilità del personale, mancanza di servizi sociali integrati.
Pandemia: una crisi che ha accelerato le fragilità
Le prove INVALSI confermano l’impatto negativo della pandemia da Covid-19 sugli apprendimenti. Dopo un’apparente tenuta nel 2021, i risultati del triennio successivo (2022-2025) mostrano un calo generalizzato, in particolare nelle classi iniziali della primaria. Ma se da un lato è legittimo parlare di “effetto pandemico”, diversi esperti hanno confermato il nostro pensiero, sottolineando come la pandemia abbia solo reso visibili fragilità già esistenti, legate a un sistema educativo che fatica ad adattarsi ai cambiamenti sociali e culturali.
Il fallimento delle ricette e l’inefficacia degli investimenti
A rendere il quadro ancor più critico è il fatto che le “ricette” proposte finora non hanno prodotto cambiamenti reali. Le risorse straordinarie stanziate con il PNRR, tanto celebrate quanto attese, non hanno inciso in modo sostanziale sugli indicatori di qualità del sistema. Nessuna inversione di tendenza nei territori più fragili, nessun salto di qualità nella didattica, nessuna trasformazione della condizione lavorativa del personale scolastico. Il problema, con ogni probabilità, è strutturale: classi sovraffollate, razionalizzazioni di organico insensate, precariato alle stelle e retribuzioni tra le più basse d’Europa rendono impossibile ogni reale riforma educativa.
I limiti del dato standardizzato
Il nodo centrale del confronto tra esperti e docenti è stato proprio l’uso e l’abuso del dato standardizzato. Le prove INVALSI, pur offrendo indicatori quantitativi fondamentali per il monitoraggio del sistema, non riescono a restituire la complessità degli apprendimenti, né il contesto pedagogico in cui essi avvengono. Non misurano, ad esempio, il pensiero critico, la creatività, l’empatia, le dinamiche relazionali, la capacità di affrontare la complessità. Tutti aspetti centrali nella formazione integrale della persona.
Inoltre, l’eccessiva enfasi su queste prove rischia di indurre un “teaching to the test”, in cui il curricolo si piega alla preparazione delle prove, snaturando la funzione educativa della scuola. In questo senso, il rischio è che INVALSI diventi una gabbia più che una bussola.
Una questione anche sindacale
Le voci del personale scolastico – spesso inascoltate – hanno portato nel dibattito un punto di vista essenziale: non si può pensare di migliorare gli esiti degli studenti senza migliorare le condizioni di lavoro di chi li accompagna ogni giorno. La dimensione sindacale, troppo spesso ignorata nei dibattiti educativi, è invece centrale: servono stabilizzazione dei docenti, riduzione del numero di alunni per classe, rinnovo dei contratti, investimenti strutturali sugli ambienti di apprendimento. Le prove INVALSI non potranno mai misurare il carico emotivo, professionale e gestionale che grava su insegnanti, personale ata e dirigenti scolastici.
Ascoltare la scuola per trasformare la scuola
In conclusione, il Rapporto INVALSI 2025 restituisce uno spaccato utile, ma parziale. Una base da cui partire, non un verdetto da accettare passivamente. Non si può progettare alcuna riforma scolastica senza un ascolto autentico del personale della scuola: docenti, educatori, collaboratori, dirigenti. Serve un confronto sistematico e aperto con chi la scuola la vive ogni giorno, nelle sue criticità e nei suoi slanci. Solo così si potrà superare la logica del controllo e restituire alla valutazione il suo significato più alto: comprendere per migliorare, non misurare per giudicare.
Mariolina Ciarnella– Presidente Irase Nazionale
Allegati scaricabili in formato PDF:
Locandina
Locandina Instagram
